In Italia il più bel libro sui Placemakers o inventori dei luoghi lo ha scritto Elena Granata per Einaudi. Lo trovi in questo articolo nella linkografia in basso. Ma qui non parleremo dell’ottimo apporto di questo libro perché i bei libri vanno letti per intero e non vanno citati a pezzettini.
Cerchiamo, comunque, di tentare di capire cos’è il ‘placemaking’ e perché questo termine moderno, definisce un metodo contemporaneo di ri-creare i luoghi, i sobborghi, i borghi e le città che sosterranno le culture umane nel futuro.
La cultura in questo contesto non è qualcosa di statico, preparato per il nostro consumo da artisti e creativi. È una visione più antropologica della cultura come una grande marea di attività umana a cui tutti contribuiamo con tutto ciò che facciamo.
Alla base di questa visione c’è il fatto che cultura e luogo sono stati, per la maggior parte della storia umana, indissolubilmente legati.
Tradizionalmente la cultura dipende dal luogo. Quando le persone sceglievano i luoghi in cui abitare le loro culture crebbero direttamente dalle risorse naturali dei luoghi in cui si stabilirono. L’ecologia di quei luoghi, i cibi che offrivano, i materiali che fornivano per costruire riparo e vestiario, tutti questi luoghi-attributi si sono convertiti nel tempo, attraverso l’uso umano, in caratteristiche culturali.
Man mano che le persone trascendono i requisiti pratici della vita, le culture crescono in complessità. Le tradizioni che arricchiscono una cultura derivano dal suo luogo, l’arte riflette e interpreta il luogo, la mitologia e la storia che si costruiscono intorno ad esso. L’espressione dell’arte, le storie che legano le persone alla terra che le sostiene e le manifestazioni dell’immaginazione spirituale creano un significato culturale. Quel significato fornisce agli individui un’identità e offre loro un senso di appartenenza che è parte integrante e inseparabile dalla loro cultura.
L’era moderna ha profondamente alterato il nesso luogo/cultura. Le culture maggiormente coinvolte nella rivoluzione industriale hanno sperimentato, nel corso di due o tre secoli, una progressiva erosione dei loro legami con il luogo. Le catene di approvvigionamento globali di crescente complessità e facilità di movimento in tutto il mondo hanno diminuito le connessioni tra le culture e i loro luoghi di origine. Nell’era post-industriale questo è stato esacerbato dalla tecnologia digitale che ha ulteriormente facilitato la connessione con un numero infinito di “altri”, nessuno dei quali deve necessariamente condividere il nostro spazio fisico.
Le culture che sono rimaste più strettamente legate alle loro terre, al contrario, continuano a comprendere meglio la centralità del luogo nella loro vita ed i diversi modi in cui esso prevede ogni aspetto della loro esistenza.
Obiettivi di sviluppo del millennio, cosa sono?
Vent’anni fa, le Nazioni Unite (ONU) hanno approvato i cosiddetti “Obiettivi di sviluppo del millennio” (OSM), che fissano otto obiettivi ambiziosi per migliorare il mondo e renderlo più sano, ecologico ed equo. Sorprendentemente, la parola “città” non è stata inclusa nell’Agenda. I sistemi urbani non sono stati considerati né come attori importanti all’interno di quella sfida globale, né come elementi cruciali per il successo del piano.
Nel 2015 è stata definita una Nuova Agenda: “17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” (SDGs) per costruire un pianeta più pacifico e prospero entro il 2030. Questa volta le città hanno guadagnato una posizione di rilievo, poiché l’Obiettivo n. 11 recita: “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”.
Un anno dopo, a Quito in Ecuador, è stata istituita una “Nuova Agenda Urbana”, che ha coinvolto 167 Stati, 40 agenzie delle Nazioni Unite e più di 1.100 ONG e attori sociali nel precedente negoziato pubblico. Questo piano si basava su una semplice osservazione: non è possibile raggiungere nessuno di questi Obiettivi globali senza il contributo delle città. Infatti, nonostante ricoprano appena il 3% della superficie terrestre, ospitano attualmente il 55% degli esseri umani, e sono responsabili di circa il 60% delle emissioni di gas serra e del 70% di rifiuti solidi, consumando circa il 70% dell’energia globale.
Nello stesso anno (2016), le nazioni europee sono riuscite ad approvare la “European Urban Agenda”, un programma completo che spazia dalla riduzione della povertà alla mobilità, dall’alloggio alle economie circolari, dal cambiamento climatico all’integrazione degli immigrati. Vale la pena sottolineare che – soprattutto per la loro lunga storia e per la graduale crescita dimensionale – le città europee sono in generale più sostenibili, verdi e giuste rispetto a quelle di altri continenti che si sono urbanizzati più di recente. Tuttavia, ci sono voluti quasi due decenni perché le istituzioni e gli Stati europei raggiungessero un accordo su una questione così importante, tenendo presente che quasi tre quarti dei cittadini europei vivono in sistemi urbani. Come spiega Agostino Inguscio nel suo articolo, le istituzioni dell’UE non sono direttamente responsabili delle politiche urbane come lo sono per quelle regionali e questo provoca una profonda frammentazione continentale mentre promuove la rigenerazione e lo sviluppo urbano.
Improvvisamente, all’inizio del 2020, la pandemia di COVID 19 si è diffusa in tutto il mondo. L’Europa è stata fortemente colpita dal virus e dalle successive crisi sociali ed economiche. Il dibattito sul futuro delle città è ritornato attuale per analizzare i necessari cambi di prospettiva e fissare le priorità nei prossimi anni. La Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha citato nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione un “Nuovo Bauhaus europeo”, un vasto piano per rigenerare le aree urbane, sconfiggere il COVID 19 e combattere i cambiamenti climatici nel quadro del “Green Deal europeo”.
Il COVID-19 ci costringe a immaginare nuove categorie e paradigmi per le nostre città e, quindi, è fondamentale imparare dalle esperienze precedenti, attraverso tentativi ed errori. La rigenerazione urbana non riguarda solo l’efficienza energetica o la demolizione di vecchi edifici, si tratta piuttosto di una nuova prospettiva della vita urbana, dove inclusione sociale, protezione ambientale, innovazione digitale e democrazia sono parte della stessa trasformazione e progresso.
A questo proposito, possiamo imparare alcune lezioni dal passato. Gli interventi di riqualificazione urbana devono essere progettati con una dinamica parallela top down e bottom up. Molti quartieri francesi non sono migliorati nonostante un investimento pubblico importante. Il motivo è che è necessario condividere ed elaborare il progetto di cambiamento insieme agli abitanti e agli attori locali. Molti di questi quartieri hanno mantenuto una cattiva reputazione e una bassa qualità della vita poiché le innovazioni spaziali e fisiche non sono state supportate dal progresso sociale e culturale.
La rigenerazione deve coinvolgere attori privati che collaborano con i governi nazionali e locali, ma non deve essere completamente orientata al mercato.
Ogni tentativo di cambiare il paesaggio urbano è un processo disordinato e complesso. Gli sforzi deliberati per rivitalizzare i distretti in declino o in rovina sono stati spesso accolti con sospetto, cinismo e, in alcuni casi, anche aperta ostilità.
Ma se rigenerazione è diventato un termine carico e controverso, la trasformazione di paesi e città rimane un’idea infinitamente avvincente. I grandi progetti di rinnovamento mantengono la promessa di rendere di nuovo attraenti e vivaci i quartieri degradati e offrono la possibilità di trovare nuovi scopi per spazi sottoutilizzati o trascurati.
Manchester, ad esempio, vanta un centro città quasi irriconoscibile dalla sua triste incarnazione dei primi anni ’80, un rinascimento reso possibile dal ringiovanimento di vecchi edifici industriali utili ad attrarre investimenti per creare nuovi punti di riferimento commerciali e culturali.
Quindi cosa rende un progetto di rigenerazione di successo? Come dovrebbero essere perseguiti e gestiti tali interventi?
The Guardian, supportato da Lendlease, ha recentemente ospitato una tavola rotonda di leader aziendali ed esperti per considerare come i progetti attuali e futuri potrebbero avere successo.
Tutti i membri del panel hanno convenuto che la rigenerazione richiede molto tempo e che avere una visione chiara e condivisa delineata all’inizio del processo è vitale.
Jason Prior, consulente per la rigenerazione presso Prior Associates, ha affermato:” Manchester ha beneficiato di stabilità politica per diverso tempo ed unitamente convergente su una direzione, piano ed obiettivo preciso, sebbene flessibile in ordine alle modalità di attuazione”.
La fornitura di nuovi edifici è spesso l’obiettivo principale di grandi progetti di rigenerazione, ma la costruzione non è tutto. Per Prior ogni buon progetto di rigenerazione richiede lungimiranza per gli spazi tra gli edifici e sul come le persone li useranno.
Pam Alexander, presidente dell’Autorità del mercato di Covent Garden, ritiene inoltre che gli schemi di rigenerazione dovrebbero essere sufficientemente adattabili da dare ai residenti una voce genuina. A tal proposito, cita il modello di localismo della capitale portoghese Lisbona dove ogni consiglio parrocchiale è coinvolto nel bilancio “partecipato”.
Gli sviluppatori dovrebbero essere disposti a scendere a compromessi e un buon progetto di rigenerazione dovrebbe consentire alla comunità esistente di “prenderlo in mano e crescere in esso”, ha affermato Andy Rowland, direttore dello sviluppo presso l’associazione abitativa L&Q.
Infine, aggiungiamo noi, attingendo da Christie Purifoy, siamo tutti Placemakers poiché siamo della stessa materia prima del mondo che ci circonda. Non siamo solo figli degli dei. Possiamo portare l’immagine di un creatore, ma condividiamo anche la parentela con le stelle, con le tartarughe, con gli alberi e con la polvere.
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Linkografia
Elena Granata, Placemaker, Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi
Questo articolo attinge e riproduce, attraverso una libera traduzione in lingua italiana, alcuni fra i più importanti articoli in lingua inglese inerenti i temi del Placemaking e della Urban Regeneration fra cui: