Fare e disfare i luoghi: storie di displacement e placemaking

Un luogo è uno spazio i cui elementi sono intrisi di patina socio-temporale. Uno spazio che parla di persone presenti o passate. Un registro di passaggi, di tracce sedimentate.  Un luogo si può leggere e capire, ti lascia immaginare le faccende che vi accadono o che vi accadevano facendoti partecipare alla sua storia.

I luoghi sono complementi umani sulla carne della terra, sono finiture, giuste conclusioni, prolungamenti della natura. I luoghi hanno odori, si lasciano annusare. Nei luoghi una finestra dialoga con la luce, un balcone con la piazza, una parete con la via, un cortile con l’ombra, il pavimento con i muri, i terrazzi con il cielo, i tetti con le nuvole. I luoghi ti invitano a restare, almeno a fermarti. Così Alessandro D’Aloia descrive i luoghi.

Nell’affrontare la multidimensionalità costitutiva di un luogo il progettista di politiche di rigenerazione dovrebbe esplorare ogni spazio abitato nella sua identità, nella sua storia e valutare tutte le possibilità di connessione ed integrazione tra attori, opportunità, risorse e mancanze nella prospettiva di migliorare la qualità della vita delle persone.

Il placemaking e il displacement sono due prospettive diverse di leggere i luoghi.

Il placemaking cerca di fornire risposte sulla possibilità di ridisegnare l’assetto dei luoghi seguendo i bisogni dei cittadini i quali diventano veri e propri architetti dei loro posti.

Il displacement avviene, invece, con la rimozione coatta delle persone, costruendo nuove abitazioni ed implementando progetti di sviluppo poco inclusivi. Nei processi di di-splacement, gli abitanti subiscono queste politiche in modo passivo mentre, invece, nel caso del placemaking i processi di rigenerazione urbana vengono basati sui bisogni dei cittadini.

Esempi di displacement e di placemaking nella storia: Collect Pond e Hight Line

La Manhattan del 1700 era un luogo molto diverso da quella attuale: una zona incontaminata di dolci colline, alberi secolari e ruscelli che defluivano in una serie di piccoli stagni. 

Uno dei più importanti di questi stagni, alimentato da una sorgente sotterranea, era “Collect Pond” una fonte d’acqua dolce che ha dissetato i primi residenti olandesi di Manhattan. Copriva circa 50 acri ed era profondo fino a 60 piedi in alcuni punti. Collect Pond era situato appena a nord dell’attuale City Hall Park e la sua acqua era famosa per la limpidezza ed il suo sapore dolce. 

Collect Pond era un’oasi di tranquillità per gli abitanti in cerca di un posto ameno per sfuggire dal centro della vita commerciale in pieno sviluppo a sud. Nella stagione calda le sue sponde diventavano luoghi per i picnic, mentre durante i giorni invernali il laghetto si trasformava in una pista sul ghiaccio per gli impavidi pattinatori. All’estremità nordorientale era sovrastato da un poggio, di circa 34 metri, chiamato Bunker Hill, da cui si apriva una vista spettacolare sul laghetto e sulla palude circostante.

Nella seconda metà del ‘700 lo sviluppo commerciale cominciò a rovinare l’atmosfera bucolica di Collect Pond. Lungo le sue rive vennero costruite diverse concerie che riversavano gli scarichi direttamente nell’acqua e nella palude del laghetto che ben presto si trasformò in una discarica per carcasse di animali. 

Nel 1789 un gruppo di cittadini preoccupati propose – sostenuti da alcuni speculatori immobiliari interessati soltanto a fare soldi – di chiudere le concerie e convertire il Collect Pond e le colline circostanti in un parco pubblico.

L’amministrazione cittadina intenzionata a rigenerare il posto e prendendo atto del fatto che le acque erano ormai irreversibilmente inquinate decise d’interrare il laghetto e le paludi circostanti e costruirci sopra un nuovo quartiere di lusso in modo da attirare le famiglie benestanti. 

Nel 1802 il consiglio municipale decretò, pertanto, che la collina di Bunker Hill fosse rasa al suolo e il suo “terreno buono e sano” impegnato per riempire lo stagno di Collect Pond. Nel 1812 le sorgenti d’acqua dolce, che per secoli avevano placato la sete dei residenti di Manhattan, finirono, dunque, sotto terra per costruirvi residenze eleganti.

Ma non trascorse molto tempo che il materiale organico – composto dalle carcasse di animali e dalla vegetazione di Bunker Hill sepolta nel lago – cominciarono a marcire rilasciando gas metano e modificando l’assetto del terreno. Gli edifici iniziarono a spostarsi e cadere, le strade divennero fangose ​​e irregolari e, senza un adeguato sistema di drenaggio e fognatura, dalle grondaie e dai marciapiedi scorrevano liberamente escrementi umani e animali.

Le epidemie di tifo si diffusero copiosamente nel quartiere. Nel giro di pochissimi anni i residenti benestanti che si erano trasferiti nel quartiere abbandonarono le loro case ed il valore del patrimonio immobiliare crollò irrimediabilmente. I nuovi residenti diventarono gli abitanti più poveri della città: afroamericani e nuovi immigrati italiani e irlandesi. Collect Pond divenne il famigerato quartiere di Five Points. 

Nel 1960 una parte di quello che un tempo era il Collect Pond fu trasformato in un pocket park della città ed è oggi noto come “Collect Pond Park“. Successivamente sono stati elaborati una serie di piani per rinnovare il piccolo parco in chiave paesaggistica prevedendo un piccolo laghetto evocativo della identità originaria del luogo. 

Restando sempre a Manhattan raccontiamo un caso di placemaking che ha funzionato con la collaborazione della comunità, una rigenerazione che non è partita dall’establishment della pianificazione urbanistica, ma dalle persone che vivevano nel posto e dall’idea di uno scrittore, un pittore e un fotografo.

Nel 1847 la città di New York autorizzò la costruzione di binari ferroviari lungo la decima e l’undicesima strada sul lato ovest di Manhattan. I binari, a livello stradale, erano utilizzati dai treni merci che trasportavano carbone, latticini e carne bovina. La strada era nota come Death Avenue per i tanti incidenti che videro coinvolti pedoni e treni, si stimò che ci fossero stati 548 morti e 1574 feriti nel corso degli anni.

Nel 1934 la ferrovia fu postata su un viadotto sopraelevato che portava le merci dai centri manifatturieri e di confezionamento delle carni sopra Houston Street fino a Midtown facendosi strada attraverso diversi edifici lungo il tragitto. Quando Lower Manhattan perse il suo nucleo manifatturiero la funzione della ferrovia divenne sempre più irrilevante. Nel 1980 un treno con tre carri merci carichi di tacchini surgelati effettuò l’ultima corsa sui binari.

Nei vent’anni successivi il viadotto fu ufficialmente chiuso alla fruizione pubblica e la natura cominciò ad impossessarsi dei binari mentre i graffitari esercitavano la loro arte sul ferro delle carcasse dei treni e sul cemento circostante. Per la maggior parte della comunità che viveva lungo la linea ferroviaria il viadotto era naturalmente una bruttura oltre che un pericolo per la pubblica sicurezza. 

Un gruppo di imprenditori locali fece causa alla proprietaria della rete ferroviaria Conrail per far rimuovere il viadotto. Nel 1992 la Commissione Commerciale Interstatale stabilì che i binari dovevano essere demoliti. Il dibattito su chi dovesse pagare la demolizione tenne banco per oltre dieci anni, senza soluzione. Poi, durante una riunione di quartiere, un pittore di nome Robert Hammond e lo scrittore Joshua David si ritrovarono a chiacchierare e cominciarono ad elaborare qualche idea per dare nuova vita alla sopraelevata, immaginandovi un parco pubblico.

Il fotografo Joel Sternfel cominciò a scattare una serie di fotografie molto belle dei binari abbandonati e nascosti tra le erbacce facendo emergere la loro potenziale bellezza. Nel giro di pochi anni il progetto, così come immaginato, sotto la direzione di una società mista pubblico-privata, raccolse milioni a sostegno della conversione e cominciò a trovare concreta realizzazione. Alla fine degli anni 90 fu aperto al pubblico il primo tratto della High Line Park, uno dei parchi urbani più creativi mai realizzati diventato nel contempo un’importante attrazione turistica per la città di New York.

Leggendo questi casi passati e quelli attuali è facile concludere che nella rigenerazione territoriale siamo ancora capaci di compiere errori che potrebbero avere conseguenze negli anni futuri, ma a differenza dei nostri predecessori adesso abbiamo gli strumenti e le strategie che possono aiutare a salvarci e porre in essere strategie creative.

Bisogna essere lungimiranti, visionari, amanti della bellezza, conformisti soltanto nel rispetto delle caratteristiche del luogo mentre per il resto coraggiosi, estremi nel prendere posizioni diverse che possono davvero portare a cambiamenti radicali capaci di rigenerare i luoghi in maniera rispettosa dell’ambiente, del futuro e delle persone che li abitano. 

Linkografia

Placemaking e Rigenerazione 

Green City: guida alla transazione verde 

Guida alla rigenerazione territoriale innovativa

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